Nel Teatro e nell'Umanità: migliaia di chilometri per portare sulla scena le vite della gente che ha incontrato in mezzo mondo; l'attore genovese racconta a Teatro.it il suo percorso fra guerre, immigrati e pregiudizi.
In teatro, Pino Petruzzelli racconta l’umanità. Tutta l’umanità. Ma prima ci si immerge dentro: per giorni, mesi, anni. Vive l’umanità, sulla sua pelle; ci mangia insieme. Cammina sulla stessa strada, a piedi, in macchina, con altri mezzi. Sente le stesse musiche, gli stessi racconti. A volte gli è capitato pure di condividere lo stesso giaciglio.
Quando te lo trovi sul palcoscenico, sai che Petruzzelli ti parlerà di cose che conosce bene, che ha vissuto in prima persona. Sai che ti racconterà un mondo in cui i fatti reali, materiali, singolari, contingenti, vengono trasfigurati da quel tanto di mito e finzione scenica che serve a trasformarli in eventi e pensieri universali, validi per tutti gli uomini a tutte le latitudini, e spesso anche in tutte le epoche.
Petruzzelli, attore e autore, ha scritto Piccolo viaggio lungo il Mediterraneo; con il giornalista Massimo Calandri ha scritto Marocco, Albania e Il G8 di Genova. Nel 2004 scrive Grecia e Zingari: l’Olocausto dimenticato. Nel 2005, con Predrag Matvejevic’ e Massimo Calandri, scrive Periplo Mediterraneo, un testo che racconta la vita di chi, in un Mediterraneo tutt’altro che pacificato, vive sulla propria pelle gli orrori della grande Storia.
Nel 2006 con L’Olocausto di Yuri racconta le responsabilità che ebbero scienza e medicina durante il nazismo. Nel 2007 fa un viaggio nelle campagne italiane e scrive Di uomini e di vini, dedicato alla vita e alla fatica di chi produce vino. Poi Non chiamarmi zingaro del 2008, e altre cose tra cui Besame Mucho, basato sulla poesia di Edoardo Sanguineti; Io sono il mio lavoro, Gli ultimi, Il ragazzo che amava gli alberi, e altro ancora.
Quando hai cominciato il tuo peregrinare? E perché?
Anni fa, ad un certo punto della mia vita, mi è venuta la curiosità di andare a conoscere di persona realtà diverse dalla mia. Realtà che, mi sono reso conto, conoscevo solo in base a pregiudizi. Poi, ovviamente, dopo avere capito, ho sentito la necessità di raccontare quello che avevo scoperto.
Pregiudizi?
Il pregiudizio ha una base, non nasce dal nulla. Può esserci un frammento di verità, un fatto particolare concreto. Poi però lo estendi a tutta una popolazione, e non va bene. Ricordo che una volta realizzai un documentario sulle riserve indiane del Nuovo Messico: scoprire la realtà di questi nativi, così diversi in certi aspetti da tutto quello che li circondava, mi aprì una finestra sul mondo. Pensai cose che non avevo mai pensato.
E quindi?
Una volta tornato in Italia realizzai uno Spazio per il rispetto: una sorta di museo delle culture presenti in quel momento in Italia.
Un argomento di stringente attualità anche oggi
Si ma con un approccio diverso. Li non si parlava di tolleranza paternalistica. Non c’era la classica domanda pietistica che fai al migrante per sapere come è arrivato in Italia o le peripezie che ha dovuto subire durante il viaggio.
Cosa c’era, allora?
Nella prima stanza, per esempio, avevamo messo una gigantografia di italiani che emigravano. Un attore, che fingeva di essere un normale visitatore, girava con una valigia in mano. Recitava brani tratti dalle interviste che avevo raccolto in giro per l’Italia. Le dichiarazioni più becere, più razziste.
Mentre stavi guardando una foto di emigranti italiani, questo ti si avvicinava e diceva: i negri puzzano, o altre nefandezze del genere. All'inizio la gente restava sconcertata: poi capiva che si trattava di un attore. In un’altra stanza c’erano libri e videocassette sulle varie nazioni.
Con la voce degli immigrati?
Certo. Ma, come dicevo, non facevamo le solite domande sul viaggio fatto per arrivare in Italia. Volevamo capire chi erano queste persone, cosa facevano prima di arrivare in Italia. L’idea era che noi rispettavamo loro come persone, senza ingabbiarli nella casella degli immigrati. Ma era dura: c’era pregiudizio, sospetto.
Ad Ancona un nostro operaio Rom non aveva potuto ritirare un pianoforte perché il titolare della ditta non si fidava di lui in quanto zingaro: e glielo aveva detto chiaramente. L’operaio era perfettamente in regola: un chiaro episodio di pregiudizio razziale. Questo piccolo evento mi ha fatto venire in mente di girare tutto il Mediterraneo, ma a modo mio.
E cioè?
In mezzo alla gente, per conoscerla: altrimenti che ci andavo a fare? Ho seguito la strada. Una famiglia mi invitava, e restavo da loro. Poi mi presentavano a un loro parente lontano, e mi spostavo. Così ho girato tutto il Mediterraneo: sono stato in mezzo ai beduini nel deserto, in zone di grande povertà, in zone di guerra.
E’ servito?
Non ho la pretesa di avere una visione oggettiva, valida per tutti. Le mie cose ti possono piacere o no, ma sono vere. Così è nato il Museo delle Culture: un allestimento che abbiamo fatto due volte, a Genova e ad Ancona. Poi lo abbiamo sospeso: era una cosa troppo complessa e lunga. A metà anni 90 ho iniziato a girare tutta l’Europa per raccogliere materiale che poi è finito nei miei spettacoli teatrali: ci giocavo sopra, cercando di ricostruire quelle verità che avevo toccato con mano.
Nato a Brindisi, accademia a Roma: come sei finito a Genova?
Ho fatto un provino al Teatro della Tosse, a Genova: l’ho vinto e mi sono fermato. Con la Tosse è stata un’esperienza molto bella e formativa. A Genova ho conosciuto persone con cui ho creato il Teatro Ipotesi. Poi c’è stato l’incontro con lo Stabile, ora Teatro Nazionale: e così, da 11 anni, sono drammaturgo, attore e regista dei miei spettacoli.
Perché hai scelto questa forma molto complessa di teatro di parola, e non hai fatto teatro di intrattenimento come (quasi) tutti?
Ho fatto il teatro "normale", lo so fare: ho recitato un sacco di cose. Ma, fondamentalmente, nel teatro di intrattenimento mi rompevo i coglioni. Il teatro non mi può dare i miliardi: quindi devo fare quello che mi piace. Non ho mai fatto televisione, pubblicità, spettacoli in cui non credevo. La vita è breve e non voglio rompermi le balle facendo una cosa in cui non credo.
Il pubblico come risponde?
Bene. Questa estate, nonostante i ben noti problemi legati al Covid, sto facendo 36 serate in due mesi: vuol dire che abbiamo seminato bene. Recitare in una città diversa tutte le sere vuol dire che si può fare una cosa in cui credi, e viverci.
Cos’è il teatro di narrazione, per te?
E’ il racconto. La vita come racconto. Il rapporto tra spettatore e attore come racconto. Io salgo sul palco da solo, ma in realtà ci sono tantissime persone che collaborano per mettermi li a raccontare, a giocare con un personaggio. Ci sono spettacoli in cui faccio Pino Petruzzelli che racconta lo sterminio dei rom durante il nazismo, oppure spettacoli dove mi diverto a confondere Pino con il personaggio che interpreto, mischiando le carte.
Succede in Io sono il mio lavoro, per esempio. E’ come quando leggi un libro e ti immedesimi nel personaggio. Nello spettacolo Il giorno in cui la natura andò sposa all'arte, io parlo normalmente. Ti accorgi che sei dentro l’opera solo quando senti dire che l’anno dopo inizia la prima guerra mondiale. E’ uno spettacolo tratto da tanti libri, che parla di opere d’arte e letteratura.
Hai creato il Teatro Ipotesi per avere le mani libere nel tuo lavoro di narrazione?
Anche per questo. Il motivo non lo so, ma mi interessava andare a capire meglio la cultura dei Rom, o andare a vedere da vicino cosa significa migrare, o trovarsi in una situazione di guerra. Ti ritrovi ad essere un po’ antropologo e un po’ una specie di sociologo emotivo. Non riporto precisamente il fatto di cui sono stato testimone: lo riporto attraverso dei personaggi, e ci gioco su.
Come lavori? Come raccogli i dati? Come li metti insieme?
Tante cose le registro in audio, in presa diretta. Altre volte ho una telecamera. Funziona così. Accendo il registratore, lo metto da una parte e poi chiacchiero a lungo con le persone. La gente lo percepisce che io li amo davvero, che ciò che dicono mi interessa veramente: e così parlano a ruota libera, si raccontano e ci dimentichiamo del microfono.
Non c’è il rischio di perdersi per strada?
Se parti dall'idea che vuoi parlare di un certo argomento, se cerchi di portare la conversazione in quella direzione, ti bruci tutto. Invece parliamo liberamente: avrò tempo a casa di mettere in ordine, verificare, approfondire. Vengo nella tua strada, ti lascio libero di dire ciò che vuoi e tu il primo giorno sei sincero: il giorno dopo non lo saresti altrettanto.
Ti interessa la contemporaneità, questo si sa. Ma perché ti interessa anche la storia?
Spesso i ragazzi vanno male a scuola perché non trovano una corrispondenza tra quello che studiano e la loro contemporaneità. La gente non sa più collegare sé stessa nel quadro generale di quello che c’è stato prima: e quindi si smarrisce, si perde. Se ora perdessi la memoria, non saprei neppure chi sono, e come tornare a casa. La storia è la nostra memoria e ci serve per il futuro, per capire dove vogliamo andare.
Un esempio?
Ce ne sono tanti. Se in un paese come l’Italia uno si dimentica di salvaguardare la natura, l’ambiente, vuol dire che non ha capito nulla: l’ambiente è la mia salute, ma anche il mio portafoglio. Chiederci dove abbiamo sbagliato serve per andare a recuperare quel momento e da lì ripartire.
Come porti questa cosa in teatro?
Cerco di dare concretezza alle parole speranza, lavoro. Pensiamo alla Venere di Botticelli. La Venere arriva dal mare, e una ragazza con un mantello è pronta a proteggere questa bellezza. La bellezza ti arriva e tu, uomo, devi proteggerla con il lavoro e l’impegno.
E’ così che è nato il tuo spettacolo Io sono il mio lavoro?
Si. Parlo del vino, guardo le Cinque Terre e vedo che lavoro immenso serve per riuscire a tirare fuori una bottiglia di vino da quel posto. Provo un’ammirazione sconfinata per questi agricoltori a strapiombo sul mare. In una situazione difficile sono riusciti a tirare fuori il meglio dal territorio e dal loro lavoro.
E’ la stessa ammirazione che provo per il ragazzo Rom che nasce sotto un ponte e poi finisce a fare il professore universitario. Il lavoro come una cosa che mi permette di cambiare le prospettive che si diramano da punti di partenza difficilissimi. Come la storia del vino nelle Cinque Terre: chi immaginerebbe che possano uscire delle eccellenze così, partendo da condizioni tanto difficili?
Che succederà nel teatro italiano dopo il Covid?
In estate abbiamo fatto molte date, perché si trattava di festival all'aperto: non ho idea di cosa accadrà questo inverno. Ma abbiamo tutti voglia di tornare a rivederci. Una comunità è un insieme di persone: vanno a teatro e per due ore si ritrovano insieme a ragionare. Il problema, come sempre, sta nel senso di responsabilità di ciascuno di noi.
Si dice che chi fa teatro di narrazione lo fa perché non è in grado di interpretare i classici.
Che stupidaggine. Io sono in grado di fare il teatro classico, l’ho fatto per anni. Ultimamente ho portato in scena tante cose di Mario Rigoni Stern: non gli ho cambiato nemmeno una riga. Ho giocato sulla parola, sulla recitazione. Certo, ho dovuto fare una riduzione: altrimenti lo spettacolo sarebbe durato molte ore. Se faccio un altro autore non gli cambio una parola: oppure riscrivo Giulietta e Romeo in chiave comica, e magari anche in dialetto.
Il tuo ultimo lavoro è stato Liguria delle Arti, una specie di performance itinerante.
Quest’anno siamo alla terza edizione. Metto in evidenza le opere d’arte e il bello che abbiamo a portata di mano e che spesso non vediamo. Girando per la Liguria ho scoperto una valanga di opere d’arte conosciute solo dagli addetti ai lavori, e a volte neppure a questi.
Esempi?
A Sassello, famosa per gli amaretti oppure perché è una zona da funghi, c’è il museo Perrando: con numerose opere d’arte e di antiquariato di vario genere, tra il XV e il XIX secolo. E chi sa che uno dei 49 racconti di Hemingway è ambientato a Rapallo? Quasimodo va a vivere per due anni a Imperia e Ventimiglia, e qui scrive tante poesie. Questa terra stimola gli artisti.